Dal giornale “Quindici” di Molfetta

15 gennaio 2001

 

Il racconto di un pescatore che ha pescato un ordigno

Bombe all’uranio, “Quindici” ne parlò già nel ’99

di Massimiliano Piscitelli e Tiziana Ragno

 

Sindrome dei Balcani, uranio impoverito, soldati a rischio leucemie, segreti militari, Alleanza Atlantica in pericolo: le prime pagine dei giornali non parlano d’altro, adesso.

Ma la guerra in Kosovo è ormai storia e molte delle “nuove verità” che i telegiornali di questi giorni ci propongono come inediti scoop, in realtà sono soltanto conferme di previsioni bollate più di un anno fa come allarmismi ingiustificati, frutto di fanatismo o di apocalittiche fantasticherie.

Eppure anche il nostro giornale QUINDICI nel giugno del 1999 scriveva di “sindrome del Golfo” (oggi ribattezzata “dei Balcani”), di uranio impoverito e dei rischi legati al suo utilizzo, sia per la salute umana sia per l’ambiente, citando persino rapporti ufficiali emessi allora da “Greenpeace” e “Legambiente”.

Parlavamo più di un anno fa anche del gravissimo impatto ambientale dovuto sia ai bombardamenti nelle terre del conflitto, sia alle migliaia di bombe che gli aerei Nato, nei mesi delle operazioni militari, regalarono all’Adriatico violando, tra l’altro, convenzioni internazionali che tuttora vietano espressamente di gettare ogni tipo di materiale in mare.

 

Vecchie bombe: ancora un ritrovamento per un pescatore di Molfetta

 

“La paura faceva novanta”: così esordisce un pescatore molfettese che ha voglia di raccontarci l’ennesimo caso di incontro ravvicinato con una bomba avvenuto recentemente durante una battuta di pesca al largo delle nostre coste, nei pressi di Mola di Bari.

E’ cosa nota che i motopescherecci di Molfetta, ma non solo, pressoché quotidianamente portino a galla impigliate nelle loro reti, ormai quasi vuote di pesci ma sempre colme di rifiuti, bombe di ogni tipo: proiettili di artiglieria, mine anticarro, siluri, bombe a mano, i famigerati e temibili ordigni all’iprite (responsabili di numerosissimi casi di ustione), armi, queste, quasi tutte risalenti alla seconda guerra mondiale.

Nonostante questi ritrovamenti siano ormai prassi quotidiana, ha sempre prevalso la tendenza tra i pescatori a far passare tutto sotto silenzio, evitando di comunicare l’accaduto alle autorità competenti (Capitaneria di Porto), il cui intervento, a loro dire, costituirebbe addirittura un ostacolo per le attività di pesca: troppo intrusive le loro indagini, eccessive le lungaggini burocratiche, troppo lunghi i tempi di fermo imposti, troppo alti i costi da pagare.

Mario (chiameremo così, con uno pseudonimo, il pescatore da noi intervistato, per ragioni di riservatezza su sua esplicita richiesta), non esita a riconoscere: “La bomba che ho ritrovato qualche giorno fa adesso è lì dove l’ho lasciata, ed è bene che sia così, senza che nessuno di quelli lo sappia”.

L’ordigno pescato da Mario era una mina di notevoli dimensioni, pesantissima, diversa da quelle che in passato anche a lui svariate volte era capitato di rinvenire. Sicuramente non era all’iprite (“al gas” come si dice in gergo tra i pescatori), ma era molto vecchia e corrosa: Mario ormai sa riconoscere il tipo di bomba e il grado di pericolosità, dall’odore, dal colore, dal peso e dalla forma.

“Ero al termine di una cala di cinque ore, stanco ma impaziente di portare a bordo il pescato, quando ho sentito che la barca quasi si fermava: avevamo preso qualcosa di grosso! Non ho potuto fare a meno di pensare subito a una bomba: tra noi se ne parla sempre e anche chi mi ha insegnato a pescare, a suo tempo, mi diceva di fare sempre attenzione, di capire in tempo di che tipo di bomba si trattasse e di applicare subito le precauzioni necessarie, perché in quei casi…è solo questione di attimi.”

Chiediamo a Mario che cosa ha fatto quando si è reso conto con certezza che si trattava di un ordigno: “Ho tagliato la rete e ho buttato tutto a mare, anche i pesci. A quel punto, invece, avrei dovuto, secondo la legge, portare la bomba a terra o lasciare la rete a mare, segnalandola con una boa, per poi riferire tutto alla Capitaneria di Porto, ma sapete cosa mi sarebbe successo? Sarebbero saliti a bordo, mi avrebbero chiesto mille cose, dove mi trovavo al momento del ritrovamento, perché mi trovavo lì, alla fine avrebbero fatto saltare in aria bomba e rete, senza naturalmente risarcirmi dei danni; senza parlare, poi, del fermo che mi avrebbero imposto e delle giornate di lavoro che avrei perso”.  

Mario ci racconta, inoltre, che in quei momenti di panico non è affatto facile gestire con freddezza e lucidità la situazione: occorre pensare alla barca, alla rete che va salvata il più possibile (una rete costa ai pescatori circa tre milioni), all’equipaggio che non deve subire danni, al pescato che bisogna tentare di recuperare, e ancora, al luogo in cui abbandonare la bomba. “A mezzo miglio da me c’era un relitto – precisa Mario - se avessi lasciato la bomba lì, sono sicuro, nessuno più l’avrebbe ripescata, con buona pace di tutti; ma non ce l’ho fatta e in fretta e furia sono riuscito soltanto a liberarmi della bomba lì dove mi trovavo e a registrare le coordinate di quel punto”.         

Mario è certo che la sua bomba sia stata portata lì da un grande motopeschereccio, chissà da dove e probabilmente sarà ancora una volta sottratta al segreto degli abissi, per diventare il frutto indesiderato di una delle tante battute di pesca.

 

Nuove bombe: niente bonifica, elevatissimi i rischi ambientali

 

La bomba di Mario risaliva sicuramente alla seconda guerra mondiale. Responsabili dunque, con ogni probabilità, gli Alleati di allora. Altre bombe nel frattempo hanno colpito l’Adriatico, divenuto discarica incontrollata anche nell’ultimo conflitto; fino ad ora nessuno dei pescatori molfettesi pare abbia rinvenuto le bombe utilizzate durante la guerra in Kosovo. 

Eppure le bombe ci sono. Sono undici le zone di rilascio nel basso Adriatico, due persino entro le dodici miglia, così come dichiarato dalla Nato, pur dopo innumerevoli tentativi di coprire con il segreto militare la verità sulle aree incriminate: la mappa (che qui pubblichiamo ancora una volta), diffusa dalla Capitaneria di Porto di Molfetta nel corso del conflitto, non fu riconosciuta né dalle  autorità italiane né dalla Nato e la nostra Capitaneria di Porto è citata persino nei rapporti dell’unità di crisi per aver divulgato allora quelle informazioni in maniera “incauta”.

La bonifica, torniamo a dire, non c’è mai stata nelle nostre zone, come si evince dal rapporto conclusivo emesso dal Terzo reparto di pianificazione dello Stato maggiore della Marina Militare Italiana, a conclusione dell’ultima operazione di bonifica condotta nell’Adriatico fino e non più a sud del promontorio del Gargano (27/7/ 1999): spesso si è posta, a giustificazione del mancato intervento, la scarsità dei mezzi a disposizione della Marina militare, dotata di cacciamine non in grado di individuare le bombe per lo più di piccole dimensioni adoperate nell’ultimo conflitto, e a così elevate profondità.  

Adesso finalmente gli organi militari “confessano” anche di aver usato proiettili all’uranio impoverito, e il nostro governo si dice sbalordito, “ignaro” com’era illo tempore dell’utilizzo di queste armi, delle quali ancora incerti sono gli effetti sulla salute umana, e soprattutto sull’ambiente.

Le leucemie sospette che hanno colpito molti soldati impegnati nelle zone di conflitto hanno fatto esplodere il caso uranio impoverito, in realtà già noto a chi di dovere, almeno dall’8 febbraio 2000, quando il sottosegretario Calzolaio rispose a un’interrogazione parlamentare relativa ad “Uranio impoverito e conseguenze ambientali in Kosovo”: più chiaro di così!….

 

Una risposta poco rassicurante

 

Già allora la risposta non fu affatto rassicurante; Calzolaio, tra l’altro, riconosceva: “Un rischio incombe anche sui fondali adriatici utilizzati dagli aerei Nato per l’affondamento di ordigni. Infatti, nonostante le attività di bonifica svolte dai cacciamine della Marina Militare Italiana e dalla Nato, una quantità incognita di ordigni giace ancora sui fondali. Questa circostanza è confermata dal rinvenimento di bombe Nato nelle reti di operatori della pesca, anche dopo la conclusione delle prime [e ad oggi uniche, ndr] operazioni di bonifica, il 30 agosto 1999”.

Ancora Calzolaio faceva notare, questa volta in una lettera indirizzata il 24 febbraio 2000 all'allora presidente del Consiglio D'Alema (fonte: L'Espresso, 18 gennaio 2001), che, unitamente ai rischi connessi all'uso di uranio impoverito in Kosovo, esisteva una seconda emergenza, quella relativa allo "stato delle armi chimiche affondate" nel basso Adriatico, per le quali si giudicava "necessaria la verifica della distribuzione, dello stato di conservazione e delle conseguenze per gli ecosistemi marini della presenza sui fondali del basso Adriatico di residuati bellici, principalmente caricati con aggressivi chimici". E' bene ricordare che nessun esito hanno poi avuto quelle ripetute sollecitazioni di Calzolaio.

 

Quali rischi per il futuro

 

Quali rischi dunque corriamo noi, ad appena 300 km dalle terre bombardate e lambiti, inoltre, da un mare che non è difficile definire contaminato in modo permanente, a seguito dei ripetuti affondamenti di proiettili di ogni sorta, compresi (e che motivi avremmo per avere dubbi?!) quelli all’uranio impoverito di cui oggi tanto si parla? In altre parole, sono a rischio "soltanto" le categorie militari e le popolazioni civili direttamente esposte ad un eccesso di radioattività nelle aree bombardate con munizionamento ad uranio?

Forse anche sull'onda dell'emotività di questi giorni, dovuta ai numerosi casi di morte registrati tra i soldati impegnati gli anni scorsi nell'area balcanica, poco si è badato alle conseguenze ambientali dell'uso di queste armi, e poco si è insistito sugli effetti che a lungo termine potrebbero essere percepiti anche al di fuori di quelle terre.

Se ancora poco chiari sono i possibili effetti dell'uranio inalato o ingerito, se  alcune fonti continuano a "rassicurare" in merito alla soglia di tollerabilità dell'organismo umano rispetto a un materiale "poco radioattivo" come "l'uranio depleto", tuttavia gli studi condotti sulla popolazione irachena ad oggi provano un assai probabile legame tra l'esposizione all'uranio impoverito (usato anche nel corso della guerra del Golfo, com'è noto) e disturbi e malformazioni a livello genetico, e, per quanto ci riguarda, pare certo che l’uranio lasciato sul campo di battaglia venga lentamente trasportato dal vento anche a km di distanza, ed il fall-out al suolo possa contaminare le falde acquifere fino ad entrare nella catena alimentare; varie fonti scientifiche, inoltre, parlano di "reale pericolo derivante da contaminazione ambientale", stimando che, nonostante la bassa radioattività dell'uranio impoverito, l'esposizione cronica a questo materiale e inoltre le difficoltà legate ad una bonifica giudicata al momento impossibile per l'estrema dispersione dell'uranio, potrebbero lasciare conseguenze indelebili sull'ambiente.

 

I pescatori convivono con le bombe

 

La nostra città e i pescatori molfettesi conoscono fin troppo bene il dramma delle bombe: dopo cinquant'anni fatti di silenzi, e anche di incidenti, hanno imparato a riconoscerle e a "gestirle" con la massima prudenza possibile. Ma di questi cinquant'anni appena trascorsi si sono serviti anche i "Signori della Guerra", che in questo tempo hanno affinato le loro armi, rendendole più subdole e pericolose: se la mina della seconda guerra mondiale riaffiorata nella rete di Mario, il pescatore intervistato, era grande e grossa, oggi nuovi ordigni, meno pesanti e meno ingombranti, abitano l'Adriatico e vi si muovono con maggiore libertà, lo contaminano e vi stazionano forse con tempi di permanenza assai più ampi. Chissà se, passati altri cinquant'anni, basteranno i moniti e l'esperienza di Mario a porre al riparo i futuri pescatori dall'uranio impoverito, nuovo ospite, forse, dei nostri mari, insieme ai nuovi strumenti di guerra che sapremo ancora inventare.